Casimiro era un cristo in croce

Casimiro era un cristo in croce, dal suo letto d’ospedale poteva vedere chiaramente la parete di fronte, la finestra con un pezzo di collina e la porta della stanza. Poi anche il soffitto con un lampadario al neon, di quelli che ci sono negli ospedali; un comodino d’ospedale accanto al letto, alla sua destra e i macchinari che lo tenevano in vita alla sua sinistra. E poi silenzio, tanto silenzio in quell’ambiente calmo e pulito che odorava a disinfettante. Il tempo era scandito da controlli medici, infermiere che registravano le sue funzioni vitali e i tre pasti canonici. Ogni tanto una visita di un prete o un amico d’infanzia. Per il resto era solo sopore e dormiveglia, a volte un quotidiano, spesso ricordi confusi nel tempo indefinito della sua malattia e ogni mattina una sessione di riabilitazione motoria, più che altro per mantenere il suo corpo sano e non cadere nell’inferno delle piaghe. Poteva osservare le sue mani, vedere come non erano più quelle di un ragazzo. Poteva muovere le mani e anche la testa, un poco il torso ma non le gambe che restavano lì senza padrone.

Casimiro era nato nel bagno di una stazione di servizio, sulla strada statale. Di sua madre nemmeno l’ombra e di suo padre idem.

Lo trovarono agonizzante sul pavimento bagnato, intriso di sangue e completamente nudo. Il cordone ombelicale era stato reciso malamente e il suo stato di salute era e continuò per il resto della sua vita a essere precario. Crebbe con i frati, in convento. Nessuna famiglia volle un bimbo che pareva un morticino e la sua infanzia trascorse tra i libri e il chiostro del convento.

Aveva dei parenti che mai si presero cura di lui, nemmeno al battesimo però quel giorno, al battesimo, si presentarono tutti: le donne vestite in abito da sera alle undici del mattino e gli uomini vestiti di nero, come le donne ma decisamente fuori tempo; portavano tutti il pantalone nero, camicia bianca e gilè di velluto broccato a dispetto del mese di settembre; si presentarono con figli e nipoti starnazzanti per tutta la chiesa mentre il prete officiava paziente il sacro rito del battesimo.

Il prete sembrava più un gangster che un officiante, il suo accento marcato e le esclamazioni dialettali gli ritagliavano un posto da fumetto americano degli anni trenta.

―Pigghiátila sta piccirídda je ffacítila jucari ‘dda ffóora. Ca s’annúunca va i vveni e cca nun c’a finímu cchiú!

Era paziente il prete, dovette terminare in fretta il sermone che comunque durò un’ora abbondante perché i bimbi già stanchi e irritati correvano come matti ed era impossibile afferrarli o anche solo contenerne lo sfogo. I parenti, alla fine della messa se ne andarono dimenticando lì il fagotto, forse per distrazione o forse per disinteresse e toccò ai frati prendersi cura del bimbo che fu battezzato Casimiro perché era il primo nome che capitò a caso senza alcun motivo.

A vent’anni Casimiro se ne andò, voleva conoscere il mondo e per il mondo si avventurò con il suo carico di sapienza e una speranza – che nemmeno lui sapeva cosa significasse – nel cuore. Il viaggio durò a lungo, molti anni, e nel suo peregrinare il ragazzo crebbe e visitò luoghi diversi e culture lontane ma i monaci lo accolsero di nuovo quando glielo riportarono quasi morente, massacrato da un’automobile in corsa. Il poveretto perse l’uso delle gambe e riprese conoscenza solo dopo diversi giorni di coma. Da allora quel letto d’ospedale che lo aveva accolto nel suo dolore fu la sua casa, per sempre.

Lo chiamarono Casimiro perché arrivò al convento il 4 marzo, senza altra dote che il suo pianto di neonato affamato. Crebbe in disciplina e devozione facendosi il segno della croce cinquanta volte al giorno. Studiava con i frati e con quelli apprendeva i segreti dell’orto, le spezie, i fiori, le piante medicinali. Nel suo piccolo, Casimiro si sentiva orgoglioso e fortunato per poter stare lì con quelle persone che gli volevano bene e quella biblioteca infinita con tre piani di libri in corridoi lunghissimi, quasi a perdita d’occhio. Al pomeriggio, dopo i compiti e le faccende, giocava in cortile con gli altri bambini, alcuni interni e altri che lì venivano a frequentare il catechismo. Alla domenica serviva messa con il suo saio bianco e poi poteva anche leggere i libri di avventure.

A undici anni lo mandarono a scuola, alla scuola media dei Salesiani e lì rimase anche a frequentare il quinquennio superiore. Non sapeva nulla di ciò che fosse fuori del convento, si e no era stato lì fuori solo qualche decina volte e sempre e solo per andare al cinema della parrocchia dove proiettavano le pellicole sulla Bibbia, la vita di Mosè e quella di Gesù. La prima volta che vide un televisore fu attraverso il vetro di un negozio, pochi minuti prima di restare a terra per l’incidente. Non volle mai più vederne uno, né acceso e nemmeno spento.

La clinica, gestita dai frati, era un luogo immerso nel verde, in una valle tra le colline boscose. Casimiro vedeva solo uno scorcio di crinale vicino alla sua finestra, non poteva alzarsi dal letto ma passava del tempo con il materasso inclinato che lo manteneva seduto, per leggere un po’ o conversare con qualcuno.

Padre Gerardo andava fargli visita una volta alla settimana, di lunedì.

―Pace e bene! ―Esordiva ogni volta il vecchio frate francescano― Come andiamo oggi?

―Di primissima ―Rispondeva quasi meccanicamente Casimiro.

―Ti ho portato una rivista, quella con le parole crociate.

―Grazie Padre.

Pregarono insieme, quasi in silenzio, una preghiera lunga e sussurrata, a memoria. Celebravano ogni santo giorno che Dio gli concedeva, ringraziando per ogni piccola novità, piccole gioie minute dell’esistenza come vedere la neve dalla finestra o godere di un raggio di sole. Come ogni volta, dopo la preghiera Casimiro si addormentò, cullato dalle parole del Padre Gerardo.